sabato 22 maggio 2010

scrivere di voi


È così bella. È così fottutamente bella.
Ed è inutile. È così fottutamente inutile. Cristo. Inutile guardarla e pensare a tutte le piccole minuscole infinitesimali parti del mio muscolo cardiaco che si sfaldano con un ritmo direttamente proporzionale al numero di reazioni chimiche che avvengono ogni secondo nel suo corpo. Ormai è stato così spezzettato e tritato e macerato che non ne è restato più, e l’intero non è uguale alla somma delle parti.
Sta appoggiata alla scala e fa scorrere le unghie, corte e ben curate, sull’acciaio freddo della ringhiera, con lo stesso movimento calcato che si usa per strappare a metà un foglio di carta. Non mi ha ancora vista.
Quanto tempo ho ancora prima che posi gli occhi su di me? Prima che mi provochi un conato di vomito. Prima che mi sorrida, che mi faccia cenno con la mano, vieni qui, continuando comunque imperterrita a parlare, distratta. Una regina deve conoscere i suoi sottoposti. Non può permettersi errori. Non può donarti più di due secondi e mezzo di attenzione prima di aver terminato il giro di pubbliche relazioni.
Alza gli occhi. Controluce mi vede benissimo. Quello che vedo io invece sono solo i suoi contorni, i denti bianchi e un aura dorata. Agita piano la mano che tiene la sigaretta, la sinistra, languidamente. Non è un aggettivo scontato. Non per lei. Sorrido e mi avvicino. Lei mi mette un braccio sulla spalla, un bacio sulla guancia e continua a parlare. Liquida.
A metà lezione mi spinge in bagno. Chiude la porta. Apre la bocca.

Sei qui, di nuovo.
Un giugno torrido, e i tuoi jeans non si incollano mai alle gambe. Li sfili con un gesto veloce e finiscono sul mio pavimento in legno chiaro, in ordine. Hai avuto da fare mi dici, un sacco di cose.
Seduta a gambe incrociate sul letto grande, disegni fiori azzurri sulle mie gambe, un giardino.
Amata abbandonata amata tralasciata. Se un punto P percorre una circonferenza a velocità costante, la sua proiezione Q su un diametro della circonferenza compie un moto armonico. L’arco che viene a disegnarsi tra i due estremi si chiama periodo. Sono un pendolo poco regolare. La linea che possiamo disegnare dalle nostre gambe intrecciate alle mie dita vuote, e viceversa, è discontinua. L’elettrocardiogramma di un infarto recente. Un singhiozzo che mi spezza l’esofago, e lo spavento ne è causa e rimedio.
Vedi me avvolta nel lenzuolo grigio, vedi lei avvolta nei jeans che le fasciano i fianchi. Le dita si affrettano veloci sulla tastiera del cellulare, correndo in soccorso di qualcuno per cui io passo, abitualmente, in secondo piano. Senza voltarsi dice La prossima volta. C’è sempre una prossima volta. La prossima volta di ieri era oggi, quella della volta prima era la settimana scorsa. Due categorie: chi ha un minimo di cura per se, e chi ha un minimo di cura per gli altri. Non sono interscambiabili. Non c’è una via di mezzo. Non c’è tempo per le posizioni di centro. Nella palude in cui sguazzi, devi scegliere tra restare a galla e finire divorato dai coccodrilli sul fondo.
Quindi mi lascia senza un bacio, e io affogo tra il fango e le ninfee.

Pensare che sono stata io. È esattamente perfettamente perdutamente colpa mia se ora mi inchiodi come si fa con le farfalle, le falene, appesa al muro davanti a te, avanti, colpiscimi. Uccidimi.
Pensare che sono stata io.
Come le farfalle ti ho svolta dal bozzolo di seta lucente che ti avvolgeva e sei rimasta al tavolo della mia cucina per ore, a contemplare il bicchiere di martini davanti a te pensando fin dove potevano arrivare le tue ali verdi e argento, fin dove potevi volare. Hai riempito casa mia, e tutto il cielo attorno.
Pensare che sono stata io.
Ti ricordi la prima volta che abbiamo fatto l’amore? Hai sfilato la maglia e sei rimasta in canottiera, nera e attillata. Mi hai mostrato le tue cicatrici. Mi hai guardata negli occhi e hai sussurrato ‘cosa ne pensi adesso di me?’ Io ho osservato quello che mi indicavi. Ho esaminato i tuoi polsi sottili e le spalle, muscolose, un po’ maschili, la pelle liscia e bianca degli avambracci. Ho sfiorato con le dita i ricami che ti eri cucita da sola, la tua vita incisa e dispiegata lì, sotto i miei occhi. Ho percorso i contorni irregolari, i centimetri di superficie in rilievo, come le pagine di un libro in Braille, e sentivo il battito del tuo cuore, aritmico, discontinuo, affannoso come il tuo respiro. Eri spaventata da quello che avrei potuto dire. Attendevi il verdetto con l’ansia di un condannato a morte. È in quell’istante che ho deciso. Di salvarti. Ho deciso che potevo essere la tua crocerossina.
E adesso non credo che sia ancora così, non credo che tu abbia bisogno di un’infermiera personale, quella probabilmente sono io. Puoi alzarti da sola, camminare sicura, stabilire chi debba amarti. Sai che è così. Avanti, ordinamelo.
Dischiudi le labbra e chiedimi di adorarti.
Ma no, non ce n’è bisogno, non c’è alcuna necessità di dirmelo a chiare lettere, perché sprecare parole quando basta usare correttamente la piastra, abbinare canottiera e jeans a vita bassa, scoparmi due volte a settimana.

Oggi è di nuovo da me. Qui, riempie i miei vuoti.
È come se io fossi la rete da pesca e lei i pesci. No, lei è sia i pesci che il marinaio paziente sulla riva. Lei ripara le ferite e ricuce, stringe i nodi sul mio petto. Ancora, lei è il mare. Lei è le conchiglie taglienti, le alghe verdastre che riverberano ai raggi del sole, lei è la burrasca, lei è tutto quello che mi strappa e lacera e poi risana. Le sue branchie si incagliano nelle mia maglie, con gentilezza infinita, e si culla su di me. Non le interessa essere tolta all’acqua. Tornate a riva i pesci mi vengono tolti e lei si dedica a me, perché io possa prendere il largo di nuovo. Onnipotente e onnipresente. Ossigeno. Idrogeno. E sale.
Non sai quanto mi piacciono le bruciature.

Non sai quanto ---